Il fotogramma di Parigi


Lapo Pistelli - Europa

Alla fine di questa settimana, Pierluigi Bersani si recherà a Parigi per una importante manifestazione politica di sostegno per François Hollande. Ci saranno con lui il leader della Spd e molti altri segretari di partiti europei. Verrà firmato un importante manifesto congiunto, preparato da alcune fondazioni politiche, che traccia un perimetro comune dell’Europa che vorremmo, degli impegni sin qui mancanti nell’agenda comunitaria.
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Così come non è mancata la solidarietà europea durante l’agonia politica del governo Berlusconi, così lavoriamo affinché analoga solidarietà si manifesti quando toccherà a noi, l’anno prossimo, competere alle elezioni. In tempi di governo tecnico e di lungo rodaggio elettorale, l’iniziativa di sabato ha generato un “gancio” mediatico fra la cosiddetta foto di Vasto e l’imminente foto di Parigi, sollevando un dibattito, già sperimentato e in genere riservato agli addetti ai lavori, sulle famiglie politiche europee e sulla natura delle relazioni internazionali del Pd.

Il Partito democratico è nato e cresciuto in Italia in condizioni assolutamente peculiari e difficilmente paragonabili ad altre esperienze europee. Nessun altra democrazia occidentale, infatti, aveva vissuto per così lungo tempo prima della caduta del Muro con un sistema politico al tempo stesso imperniato su partiti forti, capaci di svolgere una funzione di socializzazione politica e di educazione alla democrazia dell’intera popolazione, però fortemente frammentato in identità ben cristallizzate da una legge elettorale proporzionale e, al tempo stesso, così condizionato dalla contrapposizione ideologica della Guerra fredda.

Il crollo del Muro, Mani pulite, la nuova sovranità europea di Maastricht, il ruolo della televisione e della legge maggioritaria, l’irrompere sulla scena di Berlusconi hanno impresso una formidabile accelerazione alla politica che abbiamo denominato impropriamente Seconda repubblica. Quindici anni dopo la prima vittoria elettorale dell’Ulivo, il Partito democratico raccoglie le due principali e più strutturate tradizioni che dettero vita a quell’esperienza (quella cattolico-democratica e quella post-comunista), altre correnti culturali che godettero di numeri ben più piccoli nella prima repubblica (ambientaliste, liberaldemocratiche) e un numero crescente di “nativi”, cioè di cittadini ed elettori che, per ragioni anagrafiche o per ragioni politiche, o non hanno avuto il tempo di appartenere a qualcos’altro o sono semplicemente “rinati” in questo campo progressista e democratico.

Il passare del tempo fa ovviamente crescere, anno dopo anno, il numero dei “nativi” rispetto a quello dei “costruttori” del progetto originale. Una delle caratteristiche identitarie più marcate del Partito democratico, fin dalla sua nascita, è stata quella del suo europeismo e del suo internazionalismo. L’Europa come destino e la convinzione che la globalizzazione dei processi economici, tecnologici e culturali esigesse in parallelo una globalizzazione dei processi politici, ci hanno spinto a coltivare una curiosità naturale verso ogni partito nuovo, network politico, leadership emergente si affacciasse in Europa e non solo.

Per le nostre frequentazioni degli incontri sulla Terza via o sull’Ulivo mondiale, per la nostra presenza ai congressi di partiti ovunque nel mondo, siamo stati anche benevolmente sfottuti da un giornalismo politico che ci trattava come ingenui parvenu ma che tuttora si accontenta di costruire instancabilmente complotti e contro-complotti appendendoli a frasi carpite sui divanetti di Montecitorio. Il nostro impegno – va detto – è stato in molti casi sbilanciato, più unidirezionale che bidirezionale, poiché è ancora largamente prevalente il numero di partiti che soddisfano le proprie esigenze con un’agenda quasi totalmente domestica e che semplicemente aderiscono ad organizzazioni internazionali esistenti, alle quali delegano la propria rappresentanza internazionale.

In Europa, il nostro interlocutore privilegiato è oggi il Partito socialista europeo. Chi vuole costruire un campo di forze alternativo allo schieramento conservatore (trasformazione ultima del tradizionale partito democratico cristiano), non può non partire dal Pse, partito che raggruppa i più grandi partiti riformisti del continente e nel quale convivono esperienze più tradizionali ed esperienze più aperte all’innovazione dei contenuti dell’agire politico e delle forme. La collaborazione nel nuovo gruppo S&D al parlamento europeo e la progressiva torsione “europeista” del partito hanno reso la collaborazione col Pd molto proficua.

L’esperienza italiana ci ha insegnato, però, che per costruire un campo riformista più grande occorre uscire dai confini stretti; per questa ragione, seguiamo con interesse anche le elaborazioni programmatiche del pensiero ambientalistaeuropeo e le iniziative di alcune personalità liberaldemocratiche per una più esigente unione politica europea.

Ci piacerebbe che questa fosse già oggi la coalizione riformista per l’Europa. Ma così non è, e sarebbe un segno di provincialismo rovesciato pensare che l’Europa intera debba adattarsi ai nostri desideri. Dunque, la costruzione di questo campo più largo esige la nostra capacità di lettura delle storie altrui.

Fuori dall’Europa, è facile notare che gli attori politici dei paesi protagonisti non seguono necessariamente le mappe ideologiche del vecchio continente: negli Stati Uniti, in Brasile, in Giappone, in India o in Sud Africa, nel nuovo Mediterraneo o in America Latina sono tante le storie di partiti che non rientrano nei recinti (eccessivamente ampli per un verso ed escludenti per l’altro) delle vecchie Internazionali.

La foto di Parigi è dunque semmai il fotogramma di un film. Quelli precedenti vedevano John Podesta e Paul Rasmussen a Torino, Sigmar Gabriel e Jorge Burgos alla manifestazione di San Giovanni, François Hollande a Roma. I prossimi vedranno Pier Luigi Bersani prima in Portogallo e poi in Romania e, ad aprile, i leader parlamentari di Canada, Brasile, Uruguay, Sud Africa, Tunisia, Birmania, Giappone, Australia, Stati Uniti e molti paesi europei qui a Roma per lanciare un network fra gruppi parlamentari progressisti.

L’Italia ha sempre sofferto la sindrome del proprio “rango”. Siamo il più piccolo dei grandi o il più grande dei piccoli ? Siamo contro i direttori o aspiriamo solamente a farne parte ? Non solo in politica estera.

Anche nelle relazioni politiche è sempre stato un po’ così. La transizione dal post-comunismo al socialismo europeo, la ricerca di una casa per Forza Italia o di una nuova casa per Alleanza nazionale, i tormenti del cattolicesimo democratico nel Ppe, l’isolazionismo valligiano della Lega: ogni volta, con storie e ragioni diverse, era come se i partiti europei, con le loro magagne e le loro imperfezioni, fossero invece vissuti come agenzie di rating dei nostri partiti nazionali; come se fossero loro i soggetti abilitati a certificare, sdoganare, bocciare le nostre storie.

Le affiliazioni internazionali vengono ancora oggi usate nel dibattito interno come destinazioni finali da evitare (“non moriremo così o cosà”) o come etichette da appiccicare per bollare col sapore della polvere l’avversario interno. E invece questa agenda larga è semplicemente il campo più grande nel quale un grande partito, popolare e moderno, vive la propria consapevolezza del tempo globale che ci è toccato, scambiando idee, facendo incontrare leadership, co-organizzando eventi e campagne di mobilitazione. Avrà ragione chi saprà leggere meglio il segno dei tempi, chi saprà ridare contenuti attuali ai valori di giustizia, di libertà, di rispetto dell’uomo, chi saprà ridare sapore alla passione della politica. Al nome dell’etichetta da appiccicarci sopra, ci penseremo poi.

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